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Massimo Cacciari sul Corriere della Sera: «Folli ha ragione, editoria, università, ricerca e così via sono eccellenze slegate, le isole non fanno arcipelago... Però ci sono un sacco di audaci navigatori pronti a salpare, l'importante è non affondarli prima che arrivino alla spiaggia».


Gian Guido Vecchi sul Corriere della Sera

 
Massimo Cacciari lo scriveva nell’Arcipelago : il mare per eccellenza è proprio l’«archi-pélagos», il mare fecondo di isole, «luogo della relazione, del dialogo, del confronto fra le molteplici isole che lo abitano». Infatti è tra esse che sorge «la» città, Atene, polis per antonomasia. E allora il problema non è che a Milano manchi un «mare» come spazio comune né isole d’eccellenza, anzi: «Il problema è che mancano navi e rotte, al più c’è qualche zattera e disegno a vista».
Si parte dall’editoriale che il direttore del Corriere , Stefano Folli, ha dedicato ieri al desiderio di un «nuovo illuminismo milanese». Il filosofo sorride: «I tasselli per comporre il mosaico ci sono tutti ma è come se il quadro fosse incompiuto, Folli ha ragione, editoria, università, ricerca e così via sono eccellenze slegate, le isole non fanno arcipelago... Però ci sono un sacco di audaci navigatori pronti a salpare, l’importante è non affondarli prima che arrivino alla spiaggia».
Cos’è successo, professore?
«Che è collassata la politica, chiaro. Perché è la politica che traccia le linee di navigazione, combina le isole, fa rete. Con "Milano Europa", del resto, siamo partiti da una considerazione analoga: il primo titolo della rivista, l’anno scorso, fu "città di solisti senza orchestra". Di qui il minimalismo che permane...».
L’effetto del trauma di Tangentopoli?
«Sì, anche se l’appannamento della tradizione riformista milanese era cominciato prima. Il ruolo svolto da Milano nell’elaborazione di idee innovative in campo laico e anche cattolico - non dimentichiamo Manzoni - è stato fondamentale e di livello europeo dal Settecento. Ma l’ultima epoca buona, dal punto di vista culturale, è stato l’incontro fra Craxi e Bassetti negli anni Settanta, quando Milano era ancora una capitale europea».
E poi?
«E poi il trauma di Tangentopoli, già abbondantemente annunciato dalla questione morale, non è stato digerito e anzi è andato per traverso, ha bloccato pure il dialogo politico. Adesso bisogna mandar giù il boccone, anche a costo di una tracheotomia, e ripartire da questa Aufklärung , da un nuovo illuminismo milanese, dalla politica: non è un brutto nome, è bene che i milanesi lo sappiano, anche se ci si è cullati con l’illusione che questa funzione potesse essere aggirata».
Come quando il sindaco Albertini si definiva «amministratore di condominio»?
«Allora c’era anche una certa dose di realismo, di disincanto intelligente, come uno che dica: abbiamo patito un trauma, non c’è altro da fare. Solo che va bene per una stagione, non puoi vivere di disincanto tutta la vita: bisogna avere idee, utopie, altrimenti finisce che ti spari».
Ma che cosa dovrebbe fare, in concreto, la politica?
«Una città che ha centri d’eccellenza ma non ha servizi d’eccellenza non è una metropoli contemporanea. Parlo di sostegno alla parte più innovativa del sistema e di viabilità, asili, cose così, le grandi politiche sociali che hanno fatto i democristiani a Monaco e i socialisti a Barcellona. Certo, conta pure la situazione nazionale, è difficile sostenere la ricerca in un Paese che la ignora. Però Milano ha perso diecimila tram, ridiventare una capitale europea significa fornire servizi, combinare esigenze di modernizzazione e politiche sociali. Parlando pro domo mea , si tratta di creare un soggetto riformista nel senso vero del termine, non la sommatoria dei partiti del centrosinistra. E recuperare la memoria storica, chiedere ai protagonisti delle ultime stagioni liberalsocialiste e popolari di farsi avanti e cooperare, da Carlo Tognoli ai cattolici ai tanti esponenti del Pci di allora: Milano non è la memoria di Albertini ma dei grandi sindaci socialisti e riformisti, mica acqua fresca».
E il centrodestra?
«Mah, io credo resterà bloccato finché non scoppia la rana che si crede bue: difficile che la destra egemonizzata dall’anomalia Berlusconi possa venirne fuori e impostare una politica seria, alla Thatcher. Magari continueranno a vincere, per carità, ma non penso possano avviare le politiche di cui si diceva, anche perché la modernizzazione, per loro, ha tutti i significati fuorché una giusta politica sociale».
In ogni caso, che cosa accadrebbe se le isole restassero separate?
«Che non sarà una capitale europea e andrà avanti così, nessuna catastrofe. Basta prendere una mappa dell’impero romano e si vede che la maggior parte delle città sopravvivono ancora oggi, le città hanno un’inerzia...Milano sopravvivrà, tutto qui. Ma una metropoli ha bisogno d’altro, anche di essere pensata in modo differente».
In che senso?
«Come città infinita, non più in termini comunali e provinciali ma di area vasta, nella quale sia difficile definire dei confini. Per amministrare, ormai, un grande Comune deve comprendere i suoi atti in una politica di governance del territorio. Ma questo è un discorso che negli ultimi anni a Milano è mancato del tutto, il conflitto permanente tra Comune, Provincia e Regione non ha senso, è un problema di cultura. La carta vincente di Barcellona è stata questa: si è saputa programmare come un elemento nodale del territorio».
Lei ha scelto di trasferirsi qui e guidare la nuova Facoltà di Filosofia del San Raffaele a Cesano Maderno. Perché? Nota segnali di ripresa?
«Altroché. Un’istituzione privata, presieduta da un sacerdote come don Verzé, che in un tempo incredibilmente breve fa nascere una nuova istituzione: già questo piccolo esempio personale dimostra le potenzialità dell’area. Ma gli indizi sono tanti: la moltiplicazione dei movimenti, la rinascita della storica Casa della cultura, le nuove forme di comunicazione, anche le folle per i dibattiti filosofici al Teatro Franco Parenti o le code per sentire Vittorio Sermonti che legge l’ Inferno di Dante...Ci sono manifestazioni infinite della volontà di superare ogni minimalismo residuo, fare rete, entrare in una sfida reale con le grandi metropoli europee»
«Quello che oggi pensa Milano, domani lo penserà l’Italia», diceva Gaetano Salvemini. È così?
«Eh sì, diciamolo chiaro e tondo: a Milano dobbiamo porci l’obiettivo di anticipare quello che auspichiamo sia la nuova politica italiana. Bisogna ripartire da qui, l’ho già scritto: è il lavoro politico di respiro più europeo che si possa fare nel nostro Paese».