2003,l'anno del blues.Giunge in Italia «Dal Mali al Mississippi»
un film di
Martin Scorsese che racconta le origini della musica
degli schiavi africani
.
Sette film
di sette registi, tutti sul Blues, una delle iniziative U.S.A. per
festeggiare il blues,
nell'«L’anno
del Blues» come dichiarato dal Senato degli Stati Uniti il 2003.
Dei sette film
realizzati giunge nelle
sale italiane "Dal Malì al Mississippi" di Martin Scorsese.
Il film è stato presentato in
anteprima alla 60a Mostra del Cinema di Venezia 2003, e rappresenta
l'apporto personale del regista alla straordianria serie intitolata THE
BLUES.
Dice Scorsese: "Ho sempre sentito affinità con la musica blues - la
cultura del raccontare attraverso la musica è incredibilmente affascinante e
mi attrae, il blues ha una grande risonanza emotiva e queste sono le basi
della musica popolare americana." I sette film prodotti dal network Pbs, sotto la supervisione dello
stesso Scorsese, sono stati realizzati da registi di chiara fama e rinomati
melomani, tra cui
Wim
Wenders(il suo episodio, «L'anima di un uomo», è uscito nelle sale
lo scorso giugno), Clint Eastwood, Mike Figgis. Ciascuno, secondo la propria
sensibilità, ne esplora diversi aspetti e ne mette in luce diversi
protagonisti: l'età d'oro di Chicago, il rilancio dei musicisti britannici,
la figura del leggendario B.B. King, le interpretazioni al pianoforte.
«Il
blues appartiene al tempo stesso all'America e a tutto il mondo»,
spiega Scorsese, per sei anni al lavoro sul progetto. «È una forma di
narrazione talmente universale da aver ispirato persone in ogni Paese e da
continuare a influenzare la musica in ogni luogo.
Spero
che la serie di film, nel contesto dell'anno di celebrazioni,
faccia
scoprire il blues a nuove platee in tutto il mondo e aiuti i
ragazzini a comprendere - sia che amino il rock o l'hip hop - sofferenze e
genialità che sono alla base della musica che ascoltano oggi».
Il
documentario del regista di «Taxi Driver» e «L'età dell'innocenza» include,
esattamente come quelli dei suoi colleghi,
riprese di performance dal vivo, interviste a musicisti arcinoti e
misconosciuti, spezzoni di repertorio e vere e proprie rarità: in Dal
Mali al Mississippi sfilano così davanti alla macchina da presa il narratore Corey Harris e Muddy Waters, Bukka White, John Lee Hooker; ma anche
Taj
Majal, Habib Koitè, Salif Keita, Toumani Diabaté e
Otha
Turner, scomparso nel febbraio scorso e che non a caso Scorsese volle
includere tra i musicisti autori della colonna sonora del suo Gangs of New
York.
Con
"Dal Malì
al Mississippi" Martin
Scorsese passa dalle sponde del fiume Niger in Mali ai campi di cotone
ed ai locali (juke joint) del Delta del Mississippi per trovare le tracce
dell'origine del blues in una poetica combinazione di interpretazioni
originali (tra cui Ali Farka Tourè, Salif Keita, Habib Koitè, Taj Majal,
Crey Harris, Othar Turner) e rare immagini di repertorio.
Racconta
Martin Scoesese di
"The Blues" e "From Mali to Mississippi"
Quando
ero giovane, sembrava ci fosse sempre musica nell'aria. Si insinuava
dalla strada, dalle radio delle auto che passavano, dai ristoranti e dai
negozi agli angoli, dalle finestre delle case attraverso la strada. A
casa, mia madre spesso cantava da sola - ho immagini nette nel vederla
cantare mentre faceva i piatti. Mio padre amava suonare il suo
mandolino, e mio fratello Frank suonava la chitarra. In realtà, era mio
padre l'entusiasta della chitarra, e la prima musica che ricordo di aver
ascoltato fu Django Reunhardt ed il suo Hot Club of France Quintet. A
quell'epoca, si poteva ascoltare un'incredibile varietà di musica alla
radio, dalle canzoni tradizionali italiane al country e al western. E
mio zio Joe, fratello di mia madre, aveva una splendida collezione di
dischi, che andava da Gilbert e Sullivan allo swing. Egli fu una delle
prime persone con cui potevo veramente parlare, e credo riuscissimo a
comunicare proprio per via del nostro amore per la musica.
Un giorno, intorno al 1958, mi ricordo di aver ascoltato qualcosa di
completamente diverso da tutto ciò che avevo sentito prima. Non scorderò
mai la prima volta che ascoltai il suono di quella chitarra. La musica
gridava, "Ascoltami!", scappai a prendere una matita ed un pezzo di
carta e ne scrissi il nome. La canzone si chiamava "See See Rider", che
conoscevo già nella versione cover di Chuck Willis. Il nome del cantante
era Lead Belly. Raggiunsi il negozio di Sam Goody sulla Quarantanovesima
il più veloce che potevo e trovai un vecchio disco di Lead Belly della
Folkways, che includeva "See See Rider", "Roberta", "Black Snake Moan",
e alcune altre canzoni. E lo ascoltai ossessivamente. La musica di Lead
Belly aprì qualcosa in me. Se avessi saputo suonare la chitarra,
suonarla sul serio, non sarei mai diventato un regista.
Intorno allo stesso periodo, insieme ad alcuni amici andai a vedere Bo
Diddley. Quella fu un'altra pietra miliare per me. Stava suonando al
Brooklyn Paramount, in uno spettacolo di rock'n'roll. Sapeva sempre
muoversi alla grande sul palco, ed era un artista che ipnotizzava. Mi
ricordo Jerome Green ai maracas, che attraversava ballando il palco da
un lato e Bo Diddley che faceva lo stesso dall'altro, e continuavano ad
incontrarsi ed a scambiarsi al centro. E Bo Diddley fece anche una cosa
insolita - spiegò i diversi battiti di tamburo e da quali parti
dell'Africa provenissero. Questa cosa ci dette il senso della storia che
c'era dietro la musica, le radici della musica. Trovammo tutto questo
molto eccitante, e ci spronò a saperne di più. Volevamo scavare più in
profondità.
Nei primi anni sessanta, le mie preferenze optavano per Phil Spector della
Motown e per i gruppi di ragazze, come le Ronettes, le Marvelettes e le
Shirelles. Poi arrivò l'invasione britannica. Come chiunque altro, fui
atterrato da questa musica, e fui colpito dalla sua fortissima influenza
blues. Più capivo cosa c'era alla base della musica rock, e più riuscivo ad
individuare il blues. Con una parte della nuova musica britannica, il blues
passò in primo piano, e le band stavano rappresentando il loro omaggio ai
loro Maestri nello stesso modo in cui i registi francesi della New Wave
davano omaggio ai grandi registi americani con i loro film. C'era John
Mayall e i suoi Bluesbreakers. C'era la prima formazione dei Fleetwood Mac,
con Peter Green alla chitarra, fondamentalmente una blues band. C'erano gli
Stones, la cui musica aveva un forte accento blues già dall'inizio, e che
realizzarono versioni cover di "Little Red Rooster", di "I'm a King Bee",
"Love in Vain", e molte altre. E, ovviamente, c'erano i Cream. Mi piace
ancora sedermi da solo in una stanza e farmi avvolgere da quella musica.
Crearono una sorprendente fusione tra il blues e l'hard rock, e alcune delle
loro più belle canzoni erano dei cover: "Rollin' and Tumblin'", il vecchio
classico del Delta, che ascoltai la prima volta sul primo volume di Live
Cream; "Crossroads" di Robert Johnson, che fu uno dei loro maggiori
successi; e "Sitting on Top of the World" che era su Goodbye Cream. Quando
ascoltai quella canzone andai a ritroso e trovai l'originale del grande
Mississippi Sheiks.
Verso la fine degli anni sessanta, questo stimolo a cercare le radici della
musica iniziò a dilagare. La gente in tutto il paese stava scoprendo il
Blues, e andò ben oltre un audience specializzato. A quei tempi, la musica
non era prontamente disponibile come lo è ora.Certi titoli bisognava
cercarli, e altri li potevi trovare solo in ristampe e collezioni in
cofanetti. Il Blues aveva un carisma talmente potente, una sorta di aureola
intorno, che certi nomi passavano immediatamente nell'aria, e dovevi
assolutamente procurarti i loro dischi. Nomi come Son House, che io ascoltai
per la prima volta quando stavamo montando Woodstock. Fu Mike Wadleigh, il
regista, che portò il disco. Ci fu uno che disse che quando una volta sentì
cantare Caruso fu così scosso che il cuore gli fece un balzo. Ecco come mi
sentì io la prima volta che ascoltai Son House. Era una voce ed uno stile
che sembrava provenire dal passato, da tutt'altro posto e da tutt'altro
periodo. Circa un anno più tardi, ci fu un altro nome: Robert Johnson.
Un'altra voce antica, un'altra esperienza da toccare l'anima.
E' stato il mio amore per la musica, che non ha mai smesso di crescere, che
mi ha portato a "L'Ultimo Valzer". Volevo che fosse più di un semplice
documento sull'ultimo concerto de "The Band". Perché era più di un semplice
tributo musicale - era un tessuto di storia della musica, la storia della
musica de The Band. E ciascuno di quei artisti - una leggenda dopo l'altra -
rappresentò una fibra di quel tessuto. Ma quando Muddy Waters solcò il palco
e cantò "Mannish Boy", prese il controllo della musica, dell'evento, della
storia, di tutto. Ha elettrizzato il pubblico, ha portato tutto ad un altro
livello e giù alla sorgente allo stesso tempo. Ha effettuato una performance
fenomenale, e mi considererò sempre un privilegiato per essere stato lì da
testimone, per averlo ripreso, e per aver potuto rigirarlo a milioni di
persone attraverso il film. E' stato un momento determinante per me.
Negli ultimi dieci anni o giù di lì, questa ricerca delle radici storiche ha
trovato la sua strada nella mia filmografia. Ho realizzato due documentari
sulla storia del cinema - uno sui film americani, e poi un altro sul cinema
italiano. E ho deciso subito che volevo che fossero personali, anziché delle
indagini strettamente storiche. Mi sembrava che questo fosse il modo
migliore di lavorare. Gli insegnanti da cui ho imparato di più sono stati i
più passionali, quelli con un profondissimo legame con il materiale da
trattare. Per la serie The Blues, ho deciso di fare qualcosa di simile.
Il progetto ha avuto inizio quando il produttore della Cappa Productions
Margaret Bodde ed io stavamo lavorando su un documentario con Eric Clapton
chiamato Nothing but the Blues, dove abbiamo inserito materiale di Eric che
suonava pezzi classici del blues e materiale d'archivio di musicisti blues
più anziani. Fummo tutti colpiti dalla forza degli elementi e dalla poesia
di queste giustapposizioni - sembrava un modo talmente semplice ma eloquente
di esprimere l'intramontabilità della musica. Ci ha anche fornito un modo
per avvicinarci alla storia del blues in termini cinematografici. Così ci è
sembrato naturale continuare e chiedere ad un certo numero di registi che
stimavo, ciascuno con un profondo legame con la musica, di realizzare la
propria esplorazione della storia del blues. Nel farli arrivare al soggetto
dalla propria prospettiva, personale e unica, sapevo che ce ne saremmo
usciti con qualcosa di speciale, non una secca narrazione dei fatti, ma un
genuino, passionale mosaico.
Per il mio film, il primo della serie, l'idea era quella di portare lo
spettatore in pellegrinaggio al Mississippi e poi avanti in Africa con un
meraviglioso giovane musicista blues di nome Corey Harris. Corey non è
soltanto un grande artista, conosce anche molto bene la storia del blues.
L'abbiamo ripreso nel Mississippi mentre parlava con alcuni dei vecchi e
leggendari personaggi che erano ancora nei dintorni e mentre visitava i
posti dove la musica era nata. Questa sezione culmina in un incontro con il
grande Otha Turner, seduto sulla sua veranda in Senatoria con la sua
famiglia vicina mentre suonava un flauto di canna. Siamo stati anche
fortunati a riprendere il magnifico concerto di Otha nel novembre del 2001
nella chiesa di Sant'Anna a Brooklyn, che credo sia stata l'ultima sua
performance impressa su pellicola. E' sembrato così naturale ripercorrere le
tracce della musica dal Mississippi all'Africa occidentale, dove Corey ha
incontrato artisti straordinari come Salif Keita, Habib Koitè e Ali Farka
Tourè e ci ha suonato insieme. E' affascinante ascoltare i collegamenti tra
la musica africana e quella americana, vedere come le influenze viaggiano in
entrambe le direzioni, avanti ed indietro attraverso il tempo e lo spazio.
I collegamenti tra l'Africa ed il blues sono sempre stati molto importanti
per Alan Lomax, e questa è una delle ragioni per cui l'ho voluto nel mio
film. Mi relaziono in modo molto forte con l'istinto di Lomax, con il suo
bisogno di trovare e registrare suoni e musiche genuini prima che gli
ideatori spariscano per sempre. E' difficile non sopravalutare l'importanza
di quanto abbia portato a termine - senza di lui, tanto sarebbe andato
perduto.
La musica
di Otha Turner rappresentava un collegamento con l'Africa, e Lomax spese una
grande quantità di tempo nell'esplorazione di questa connessione. Quella
musica di elementi, fatta con niente altro che un piffero ed un tamburo mi
ha sempre affascinato. La prima volta che l'ho ascoltata, stavo montando
Raging Bull di notte. Ero incantato - sembrava come qualcosa uscita
dall'America del diciottesimo secolo, ma con un ritmo africano. Non ho mai
neanche immaginato che una musica del genere potesse esistere. Ho trovato un
nastro con la musica di Otha, e l'ho ascoltato ossessivamente per diversi
anni. Ho sempre saputo che avrebbe avuto un ruolo chiave in Gangs of New
York. Quel progetto ha avuto diverse false partenze, ed è cambiato molto
negli anni, ma una cosa che non è cambiato mai è l'idea che avrebbe incluso
della musica per piffero e tamburo. Quando finalmente sono riuscito a
realizzare il film, siamo stati alquanto fortunati nel poter usare un pezzo
di Otha insieme alla sua Rising Star Band, e l'ho usato in playback sul set
per stimolare l'azione - è riuscito a dare al film un'energia ed una potenza
che altrimenti sarebbe mancata, e ci ha aiutato a creare un mondo che non
avevamo visto ancora. Quando uscì la pellicola, molte persone
pensarono
comprensibilmente di ascoltare musica celtica e furono sorprese nello
scoprire che era di Otha Turner, dal Mississippi settentrionale.
Il senso della continuità e della trasformazione nel blues, il modo in cui
passato, presente e futuro sono uniti in un'unica entità, dinamica e
creativa, non smette mai di stupirmi. Nei primi mesi di quest'anno, abbiamo
realizzato un concerto "Salute to the Blues" qui a New York, che Antoine
Fuqua ha filmato per la nostra serie. E' stato un evento che non scorderò
mai, e lo spirito di quella serata è stato memorabilmente riassunto da Ruth
Brown, che disse: "E' grandioso che siamo tutti qui insieme - e non è per un
funerale!" La grande varietà della musica era qualcosa di cui meravigliarsi,
e la bellezza del suono e del canto era incomparabile. C'erano dei musicisti
che hanno completamente trasformato la musica , e suonarono una sorta di
blues del ventunesimo secolo. Chris Thomas King ha rifatto una versione di "John
the Revelator" di Son House con un giradischi ed una synth guitar. Ha
continuato ad impilare strati di suoni uno sull'altro, ed è riuscito a
creare qualcosa di completamente moderno e sorprendente ma molto in sintonia
con la voce del blues.
Questa idea di continuità e di trasformazione scorre attraverso tutti i film
della serie. Charles Burnett ha realizzato un dramma poetico e personale
sulla vita del blues vista attraverso gli occhi di un giovane ragazzo. Wim
Wenders ha realizzato un film evocativo che si muove come un sogno
attraverso il passato, il presente ed il futuro, in modo da congiungere tre
diversi bluesmen. Dick Pearce ha realizzato un film formidabile su Memphis,
con Bobby Rush ed il grande B.B. King. Marc Levin si è occupato del Chicago
Blues, con la presenza di Chuck D e Marshall Chess in studio con la Electric
Mud band che registrano nuovi brani grandiosi con alcuni membri di The Roots
- ancora una volta, in questo film si coglie un forte senso di
trasformazione continua del blues. Mike Figgis, che è a sua volta un
musicista, ha fatto un film sulla scena blues britannica, in forma di storia
raccontata da molti dei suoi artefici. Clint Eastwood ha versato un tributo
decisamente elegante ai grandi pianisti blues, Jay McShann, Pinetop Perkins,
e altri. Tutti questi meravigliosi film sono come pezzi di un mosaico, alla
fine ne viene un quadro dinamico ed in movimento di una grande forma d'arte
americana.
Alla gente piace pensare ai grandi cantanti blues come a degli istintivi,
con talento e genio che scorrono sulle punte delle dita. Ma John Lee Hooker,
Bessie Smith, Muddy Waters, Howlin' Wolf, Blind Lemon Jefferson, e così
tanti altri talenti stupefacenti, molti più nomi di quanto questo spazio
possa permettere, sono alcuni dei più grandi artisti che l'America abbia mai
avuto. Quando ascolti Lead Belly, o Son House, o Robert Johnson, o John Lee
Hooker, o Charles Patton, o Muddy Waters, ti senti scosso, il cuore ti
batte, ti senti trasportato e ispirato dall'energia viscerale, ed è una
verità emotiva solida come la roccia. Vai dritto al cuore di ciò che c'è di
umano, la condizione di essere umano. Ecco cosè il Blues.